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I manoscritti di tutta la vita. Per il centenario di Elsa Morante

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di Caterina Fontanella

Carta di apertura del primo quaderno de L’isola di Arturo (V.E. 1620/A1, c. 1)

Si inaugura oggi a Roma la mostra Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante. La più grande scrittrice del Novecento italiano è nata cento anni fa, il 18 agosto del 1912. Per ricordarla e celebrare la ricorrenza, la Biblioteca Nazionale Centrale ha organizzato questa esposizione, che mette in vetrina quanto di più intimo lei ci ha lasciato: i suoi manoscritti.
Riguardo al suo lavoro era molto schiva, raramente rilasciava dichiarazioni su ciò che stava scrivendo ed era gelosissima delle sue carte. Eppure (o meglio, quindi) Elsa Morante ha voluto che queste sue carte fossero donate ad una biblioteca. Probabilmente la ritrosia e il desiderio di riservatezza sono stati, oltre che caratteri suoi naturali, causa ed effetto di una mai risolta inimicizia con la società letteraria e i giornali, che prima la ignorarono e poi spesso la equivocarono, consapevoli o no. Ma i suoi manoscritti non sono fraintendibili, perché parlano senza menzogne e sortilegi.
L’archivio di Elsa Morante è arrivato alla Biblioteca Nazionale in due fasi e per questo motivo è stato catalogato, ed è quindi consultabile, in due diversi fondi. La parte più consistente è stata donata alla fine degli anni Ottanta, poco dopo la morte della scrittrice, e riguarda le cinque opere principali: i romanzi (Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La Storia e Aracoeli) e una raccolta di poesie (Il mondo salvato dai ragazzini). La seconda parte si è aggiunta di recente, portando con sé tutte le tessere necessarie al compimento del mosaico: le poesie di Alibi, i racconti, abbozzi di romanzi, lettere pubbliche, diari. Due elementi che si fondono e diventano uno, così come questa nuova mostra vuole porsi ad integrazione e approfondimento di quella che è stata esposta, prima a Roma e poi a Napoli, nel 2006. Le stanze di Elsa, questo il nome, è poi diventata una mostra virtuale, che si arricchisce di un preziosissimo database contenente la riproduzione digitale di molte pagine manoscritte, di racconti pubblicati dall’autrice su rivista e solo in parte recuperati nelle raccolte successive (d’autore e non) e di articoli difficilmente reperibili in altro modo.
Due mostre e due fondi, quindi, che si legano però insieme a formare una vita. Davvero per Elsa Morante la scrittura fu un’esperienza totalizzante, in cui poesia ed esistenza si sono fuse sullo stesso foglio manoscritto, fino a diventare una cosa sola.
Tutti i quaderni e le carte sciolte testimoniano la natura inquieta e insoddisfatta della scrittrice, la sua mano mai paga di sé, la ricerca inesausta della parola e del dettaglio. Non esiste pagina priva di cancellature e ripensamenti, note e richiami. Moltissimi sono gli elenchi di parole, gli spunti per la narrazione, le citazioni da letture fatte, le dichiarazioni d’intenti. Non è solo l’opera nel suo farsi che il manoscritto ci restituisce, ma anche i nodi del pensiero, gli incagli della logica, insomma tutto ciò che sta dietro, prima e intorno a quel che poi sarà pubblicato.
Leggere e studiare i manoscritti di Elsa Morante vuol dire entrare in contatto con l’idea originaria che l’autrice aveva della sua opera, capire esattamente quale fosse il suo intento, il perché di una parola e non un’altra. Le carte che riguardano L’isola di Arturo, ad esempio, ci parlano di qualcosa che nella redazione definitiva del romanzo non ci sarà più: ci dicono chi è Arturo nel momento in cui sta ricordando la sua infanzia, che ne è stato di lui dopo la partenza da Procida. Gli appunti e le sigle che percorrono i quaderni de La Storia, invece, spingono a riconsiderare, rispetto ad informazioni date prima per appurate, tutte le date di composizione del romanzo, legandolo ad un nucleo narrativo precedente, a cui l’autrice stava faticosamente lavorando già da anni.
Per questo motivo analizzare i manoscritti non è operazione né inutile né accessoria: perché studiandoli non ci possiamo sbagliare, perché essi ci forniscono informazioni fondamentali per la lettura e la comprensione di una certa opera. E ovviamente è a quell’opera, nella sua redazione definitiva, che il lavoro di analisi filologica deve riportare.
Studiare le varianti alternative, leggere le note sparse sulle carte, confrontare le diverse redazioni di uno scritto: non lo si fa per masochismo o perversione, ma per illuminare il testo di una nuova luce. Per capirlo meglio e più profondamente, insomma. E, ancora, per fornire una base inequivocabile alla ricerca e all’approfondimento critico, senza i quali il lavoro filologico rischierebbe di rimanere fine a se stesso. In fondo l’analisi dei manoscritti e lo studio critico si pongono come comune obiettivo un aumento di conoscenza rispetto ad una certa opera, ed è quindi non solo naturale che essi vadano di pari passo, ma anche benefico, perché bilanciandosi possono reciprocamente limitare le derive “integraliste”.
I manoscritti di Elsa Morante, quindi, ci mettono in contatto con la sfera più profonda di lei, le sue nevrosi e i suoi desideri. Leggerli è esperienza entusiasmante ma insieme perturbante, perché ci legano ad una personalità che si apre completamente, lì davanti ai nostri occhi. Ci forniscono informazioni intime, ci restituiscono sensazioni ancora vive. Certo una buona dose di “compassione” (nel suo senso letterario) è necessaria per la comprensione del manoscritto, ma occorre non farsi incantare dalle sirene della confidenza, rispettare cioè quella riservatezza e quel pudore che furono propri della scrittrice. Bisognerebbe filtrare le informazioni che il manoscritto ci dà, condividendo ciò che può essere utile per la lettura del testo e lasciando riposare ciò che lo è di meno. Si eviterebbero così le derive voyeuristiche, la caccia al dettaglio pruriginoso.
Un lavoro profondo sui manoscritti richiede tempo e pazienza. È il metodo scientifico che va messo in pratica: si osserva e si legge il testo, si formulano delle ipotesi (di senso o di datazione, ad esempio) e poi si torna sul testo per verificarne la bontà. E se l’ipotesi è errata non si può andare avanti a costruire una teoria, perché l’evidenza del manoscritto è lì, a dirci che abbiamo sbagliato. Ogni analisi superficiale portata avanti di fretta e senza elasticità, quasi a voler obbligare il manoscritto a dirci quello che vogliamo sentirci dire, non è corretta. In primo luogo nei confronti della stessa scrittrice. È un altro tipo di deriva che si rischia di incontrare: la caccia all’inedito, la foga da scoop.
La mostra che si inaugura oggi espone materiali variegati e affascinanti. Ci sono due quadernini di Elsa Morante bambina, scritti tra i cinque e gli otto anni, pieni di filastrocche e poesiole che parlano di sé, dei fratelli, di bambole e giochi. Poi le poesie, edite e inedite, e gli scritti di carattere etico-politico (come la lettera alle Brigate Rosse e la lettera ai giudici che avevano condannato per plagio Aldo Braibanti), molto meno conosciuti rispetto alle opere principali, ma utili a comprendere l’impegno della scrittrice sui temi e le vicende a lei contemporanei. E ancora i diari, alcuni materiali relativi ai romanzi editi e due abbozzi di romanzi non completati, le recensioni di film per la rubrica RAI “Cronache dal cinema” e infine le ultime parole dopo anni di silenzio, scritte pochi mesi prima della morte.
È intenso e appagante avvicinarsi a questi manoscritti, perché attraverso di essi, dopo tanti anni, Elsa Morante continua a parlarci.



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